Dé studio voor interieurinrichting en - styling voor de zakelijke en particuliere markt . Het inrichten van kantoren, maar ook openbare ruimtes, B&B's, lunchruimtes en schoonheidssalons is ons niet vreemd. Wij maken van elke ruimte een unieke plek om lekker te werken of bijvoorbeeld te ontspannen. Voor elk gewenst doel maken wij een passend plan. Onze ontwerpen zijn herkenbaar en hebben allemaal een tikkeltje energie en lef meegekregen! Voor particulieren (woningen) bieden we interieuradvies aan in de vorm van een complete metamorfose in één dag. Ons ontwerp wordt tot in detail gerealiseerd en we zijn binnen een dag klaar. Het is heel simpel: word je enthousiast bij het zien van onze afgeronde projecten? Dan ben je hier aan het juiste adres.
identiteit voor The Principality of Sealand. Een fictief eiland dat draait om zijn extreme sporten. Vandaar dan ook de huisstijl gebaseerd op blauwe plekken, want voor doetjes is dit niet. 2014
I Lobo You reflects the world behind Boca do Lobo's inspirations and trends, exploring contemporary art projects and celebrating the best of modern art.
We catch up with the Flemish artist after the publication of his fifth major book, which is also the subject of an exhibition in Paris opening this Thursday.
Hans Op de Beeck, an artist whose practice spans video, works on paper, and sculpture, is represented by New York-based Marianne Boesky Gallery.
Hopelijk hebben jullie mijn raad van donderdag (klik) opgevolgd en komen hier toch eens piepen, want dit werk eens in detail bekijken is zeker de moeite waard! De spanning tussen fictie en werkelijkheid is het grote thema van Rinus Van de Velde (klik). De Antwerpse kunstenaar, die zichzelf onder vele vermommingen als hoofdpersonage in zijn werk opvoert, gaat in het Smak op zoek naar een fictieve stad in Brazilië. In monumentale, briljant uitgevoerde tekeningen roept hij een bizar universum op. En voor de foto's van mij klik je hier of hier. Fijn paasweekend allemaal!
Parasol Unit, London, UK
Saul Steinberg nasce a Ramnicu Sarat (Romania) nel 1914. Nel 1933 arriva a Milano, dove si laurea in architettura al Politecnico, e pubblica i primi disegni sulla rivista satirica “Bertoldo”. Nel 1940, a causa delle leggi razziali, è costretto a lasciare l'Italia per gli Stati Uniti, dove per oltre sessant’anni lavorerà per il “New Yorker” e pubblicherà tutti i suoi libri. Muore nel 1999. Due foto famose ci permettono di fare capolino all’interno della personalità di Saul Steinberg. Nella prima, scattata da Inge Morath nel 1959, l’artista è appoggiato a una sedia viennese. Indossa un panciotto a quadrettini e un golf scuro. Sul volto ha una maschera, una specie di autoritratto schizzato su un sacchetto giallo di carta da pane. Nella parete dietro di lui occhieggiano, appesi, altri Steinberg di carta, con i baffi ben curati, gli occhiali neri tondeggianti, il naso dritto e aristocratico. Nella seconda foto, molto più recente, l’artista, ormai anziano, tiene per mano un bambino. Entrambi sorridono (un sorriso appena appena accennato, un’ombra) al fotografo. Il bambino altro non è se non una silhouette fotografica dello stesso Steinberg all’età di otto anni. L’artista vecchio stringe la mano all’artista bambino. Si è mai vista una metafora più esplicita e coinvolgente? Esplicita perché Steinberg, con queste immagini di se stesso, sobrie ed essenziali fino a sfiorare la reticenza, ci dichiara che quello che vediamo è sicuramente ambiguo, quasi sicuramente falso. Coinvolgente perché l’artista pare suggerire una nuova gerarchia orizzontale nell’ordine delle cose, che non ha la normale consequenzialità di causa e effetto, di prima e dopo, ma che trae piuttosto origine da una continuità stilistica in cui l’uomo deriva sempre da se stesso (è sempre uguale, in ogni momento, a se stesso) e il disegno, come in uno specchio o nel riflesso di una pozza d’acqua, torna a ricreare e inventare una vita dove non vi è né prima né dopo, né principio né fine. Tutta l’opera grafica di Steinberg finisce quindi per ruotare intorno ai concetti chiave di ambiguità e di falsificazione. La linea, che è il momento essenziale della sua espressione artistica, diventa anche il momento di massima confusione. La mano che disegna la mano che disegna, a sua volta, la mano. Il tratto che traccia il tratto, le parole che diventano grafia, disegno, rappresentazione, percorso. Nell’opera di Steinberg c’è, costante, il racconto autoreferenziale della grafica che celebra se stessa, del segno che disegna il suo racconto, della carta che genera, dalle sue pieghe o dalla sua quadrettatura, altre immagini di carta. Cosa è vero e cosa è falso, chi è il riflesso, chi l’ombra? "Alle pareti della mia casa ci sono dei quadri, una specie di collezione fatta con scambi tra amici, con l’eccezione di un falso Mondrian che ho fatto io, come una specie di omaggio a Mondrian. Ho cercato di impersonarlo, di vedere come potrei sentirmi io, se fossi Mondrian... Ho provato a impossessarmi di Mondrian, a digerirlo. E c’è l’illusione che non sia completamente falso, perché l’ho fatto io." La forza creatrice della linea è, insieme all’autentificazione del falso, uno dei motivi ispiratori più facilmente avvertibili nell’opera di Steinberg. All in line (1945) si intitola infatti il suo primo, importante libro, quello dove lo Steinberg filosofo del disegno e dell’esistenza inizia un suo percorso di liberazione dallo Steinberg cartoonist e pupazzettista. Lo Steinberg americano del “New Yorker” comincia qui ad allontanarsi dallo Steinberg italiano del “Bertoldo”. La successiva raccolta di disegni, The art of living (1949), sarà un altro passo importante per la definizione di un linguaggio grafico nuovo. Con la pubblicazione di The Passport (1954) tutto il cammino è percorso e l’artista è ormai completamente immerso in quel mondo parallelo di tracce, carte bollate, quadrettature, macchie d’inchiostro, timbri e tamponi di cui abbiamo parlato. E può sul serio credere che quella sia la realtà vera perché "... l’ho fatta io!" "Di che cosa si compone Passport? – ci si chiede in nota al catalogo della mostra tenuta da Steinberg al Whitney Museum nel 1978 – Falsi documenti, diplomi, certificati, false fotografie (con falsi autografi), false incisioni, etichette false di vino, lettere, diari, manoscritti, falsi ex-voto. E poi impronte digitali, parate cittadine, cocktail parties, balletti, giocatori di biliardo e di base-ball, cowboys, gatti, cani che camminano eretti, donne a cavallo, suonatori di chitarra, automobili, locomotive, ponti, sfingi. Architettura vittoriana, liberty, baracche e grattacieli..." Certo, The Passport è questo, ma c’è ancora da chiedersi se sia solo questo. Ci si può limitare a considerarlo il geniale inventario di un mondo visionario e parallelo? E se no, cos’altro? Più che l’inventario di un mondo The Passport ci sembra essere l’invenzione di un mondo. La catalogazione maniacale degli oggetti, le linee, i segni, gli uomini, le majorettes sgambettanti, l’architettura, il paesaggio, le opere d’arte rivisitate, i gatti, cani, coccodrilli, sono tutti in funzione della complessa cosmogonia che Steinberg va in quegli anni architettando. Elementi che hanno un loro posto preciso in ogni preciso disegno ma che non sono determinati e fissi per sempre. Contribuiscono, interagendo continuamente con tutti gli altri elementi, alla definizione degli spazi e al racconto totale della storia e delle storie. Spazio e storie che ci sembrano quasi disegnati con gli occhialini 3-D, quegli aggeggi rossi e verdi di cartone e cellophane che, a volte, negli anni Cinquanta venivano dati per ricreare, al cinema, una meravigliosa realtà tridimensionale. Guai a togliersi gli occhialini: la pellicola appariva immediatamente deforme, sfasata, fuori fuoco, incongrua. I capitoli non dichiarati in cui The Passport idealmente si divide, mentre celebrano, si è detto, la complessiva utopia creatrice del disegno, ci dicono anche qualcosa del percorso dell’artista dentro se stesso, ci raccontano dei suoi sogni, degli incubi, di una realtà esterna nuova (l’America) da affrontare, di una identità diversa e antica (l’Europa) con cui fare i conti. L’ancestrale europeo dell’artista si presenta fin dai primi disegni della raccolta, fitti di calligrafie belle e illeggibili, di firme che non rimandano a nessun nome e a nessun volto, di impronte digitali che certificano identità contraffatte. Il pennino graffia fogli di carta da computisteria o da musica dove si appoggiano forme che dalla carta stessa traggono origine e giustificazione; è il mondo, familiare per un ebreo rumeno figlio di un legatore di libri, della burocrazia mitteleuropea, lo stesso habitat polveroso di carta, inchiostro, timbri e scartafacci che abbiamo visto pesare su tanti impiegatucci letterari di Gogol, di Kafka, di Hrabal. Dopo la breve collaborazione con il “Bertoldo” di Giovanni Mosca, Saul Steinberg aveva lasciato l’Italia, nel 1941, in seguito alle leggi razziali. Molti anni dopo, in uno dei rari momenti di riflessione autobiografica, l’artista ricorderà il clima surreale della sua persecuzione milanese, con la polizia fascista che cercava di scovarlo la mattina presto e con lui, quasi eroe da romanzo, che all’alba si aggirava per una Milano che cercava i suoi ritmi giornalieri di lavoro. "Da qualche settimana mi svegliavo un po’ prima delle sei, e appena lavato saltavo in bicicletta e andavo per le strade come uno che va al lavoro. L’aria di Milano era ottima, allora, e la luce bellissima, e vedevo una cosa che non avevo mai visto, lo svegliarsi tranquillo e silenzioso di una città: gente a piedi, gente in bicicletta, tram, operai. Tornavo a casa dopo le sette e era assolutamente sicuro che se non erano venuti fino alle sette non venivano più (sabato e domenica non venivano mai). Facevo la prima colazione e tornavo a letto per dormire ancora un po’ e avevo la grande soddisfazione di tutta una giornata libera davanti a me; più che una vacanza, quasi una vita guadagnata." Un kafkiano Processo rovesciato, surrealmente ma tangibilmente italiano. Dopo un breve soggiorno (ma allora si chiamava confino) a Tortoreto degli Abruzzi, Steinberg, via Santo Domingo, sbarca a New York (con un passaporto falso, naturalmente) dove cercherà e troverà le prime collaborazioni grafiche. Il “New Yorker” costituirà da allora, 1942, per quasi sessant’anni la sua ragione di vita professionale e la principale palestra di sperimentazione artistica. Nella sua opera si potranno trovare ancora le persistenze della formazione europea ma il disegno – vero o falsificato – di Steinberg si nutre da allora anche delle grandi aperture della frontiera americana. La vastità e la solitudine degli spazi, il gigantismo dell’architettura e della natura del nuovo mondo si incontreranno-scontreranno con la minuzia quasi maniacale con cui la penna dell’artista si muove sul foglio, in quell’infittirsi e rarefarsi continuo di linee, nel costante levitare e lievitare del segno. I disegni americani di Steinberg sono notazioni puntuali di una realtà reinventata volta a volta e per sempre, dove l’uomo, anche in mezzo ad una folla chiassosa e frenetica, è sempre sconsolatamente solo. Sono diari che archiviano una realtà dura, con tutto un suo carico rilevante di rassegnazione disincantata e amara: "[...] non ci si illude, in America, che la vita sia una cosa romantica, una cosa che si possa recitare a soggetto. Qui la vita è veramente quella cosa penosa che dobbiamo sopportare. Questo è un paese stoico, che rende visibile in ogni momento il comune destino di dover sopportare la vita. Questo, insomma, è il paese dove si vive senza illusioni. Nessuno qui, cerca la solitudine. Del resto un uomo solo che bisogno ha di nascondersi? A chi si nasconde? " L’uomo è solo nei disegni americani di Steinberg, ma accanto a lui passano decine di altri uomini soli che riempiono le città e il paesaggio, che affollano le strade e i marciapiedi, che guidano auto rombanti lungo le direttrici a perdita d’occhio di improbabili main streets. Sono figure che vanno e vengono, il cui solitario percorso si incontra, forse, o si scontra all’infinito; figure e figurette, raggrinzite nell’inchiostro, che vanno a occupare spazi e situazioni che l’occhio percepisce come una perfetta corale. Brandelli complessi per un grande affresco collettivo. Di più: come ha notato una volta Franco Cavallone, questi disegni "[...] sono uno scrap-book del nostro tempo, un viaggio lungo la linea ininterrotta del disegno, che va tracciando, nello stesso tempo, il proprio itinerario e i paesaggi filosofici che attraversa". Il viaggio grafico di Steinberg permette infatti non solo (come in una famosissima copertina per il “New Yorker”) di attraversare l’America con un solo tratto di matita e di lanciare un occhio di là dal Pacifico verso il Giappone, la Russia e la Cina, ma anche di raggiungere le terre d’Utopia, con una mappatura precisa ed esauriente che ci indica, a esempio, come arrivare ad astra passando, naturalmente, per aspera (e purtroppo la via che conduce ad astra è niente più che una deviazione secondaria e la via principale del percorso porterà, inevitabilmente, ad stercus!). Un disegno che, collegando la cosmogonia di Steinberg al nostro povero universo reale, si presenza come un ironico e sconsolato conte philosophique. Via via che Steinberg procedeva negli anni alla creazione del suo mondo disegnato, sembrava quasi provvedere all’erezione contemporanea di una barriera che separasse nettamente le storie della vita dalle ragioni dell’arte. Le notazioni biografiche si offrono quindi vaghe e nebulose. Qualche ricordo, nessun accadimento apparentemente rilevante. Poche parole, anch’esse distillate con parsimonia, sull’arte; quasi niente sulla grafica. Gli spiragli che sembravano aprirsi si richiudono immediamente. Sempre con discrezione, in silenzio. Mai un grido né un clamore. Dio era troppo occupato nella creazione del mondo per potersi permettere il lusso di una propria biografia. Diploma di ebreo Steinberg si era laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1940. In una riflessione di molti anni dopo (1985) ebbe a scrivere: "Questo Diploma del 1940 è sopratutto un Diploma di discriminazione e pregiudizio (di “razza ebraica” ha questa funzione). Ora: Sua Maestà è sparita quattro anni dopo e morì nel ‘47 in esilio, in Egitto. Il Regno d’Italia? Finito. E d’Albania? Che scherzo! Imperatore d’Etiopia? Che tempo crudele e imbecille. Tutto sparito. Il mio diploma stesso, stampato in finto Bodoni su pergamena finta si sta disintegrando e presto sparirà. Il titolo di dottore in architettura non l’ho mai usato e sono stato fortunato a non dover praticare l’architettura che per me è un supplizio. Il Dottore in Architettura è sparito. È rimasto solo Saul, figlio di Morits, di razza ebraica. Infatti questo è un diploma di Ebreo." Testi tratti da: Andrea Rauch, Il mondo come Design e rappresentazione, Usher Arte, 2009
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The wonderful drawings of Eva Hesse. Still as fresh as ever.
Strange Scenes: Early Cape Dorset Drawings, Jean Blodgett and Susan Gustavison, McMichael Canadian Art Collection, Kleinberg, Ontario, 1993 ...
The Pilgrim log cabin. I found this idea here. This took me months of saving toilet paper rolls--and I am so grateful for all of the friends who helped by saving their stashes too! (It's just shy of 600 rolls.) My dad built a simple wood frame for the house and I simply glued the rolls on with wood glue--while the boards were lying down flat. For the roof I purchased brown paper from the Dollar Tree and we put clear packing tape in the places that we hammered tacks into the wall. We will be leaving this up to play in for awhile. It takes over half of my dining room, but the kids love it! Inside the house. Ready for some fun! My mom made all of the white Pilgrim elements of my costume which I threw on over a black skirt and shirt. Since we were in our front yard the majority of the time, I received many stares and comments from my neighbors. (I know that they secretly wish they had a Pilgrim costume too!) Our church has a farmer's market once a month. The gal in charge blessed me with all of these pumpkins and corn stalks for free! After the last service and I was able to take all of the leftovers. Each of the kids got to take home a pumpkin and some Indian corn. We made a paper mache Plymouth Rock. My kids helped me draw these with chalk on our driveway. Indian decor--thanks to my brother-in-law, Mark. As kids entered our home, they grabbed a job card of an early colonist. After everyone was seated, the kids came out of the Pilgrim house one by one and read what they did for their job. I found these job cards at Teachers Pay Teachers for $4. They were perfect for this event and you can find them HERE. My kids drew pictures of all the Indian symbols that were used for communication. Faith wrote a little description about Indian symbols and we put it up for others to read. Before photography, the middle class made silhouettes. We had fun making these and Paige wrote a report about them. I had the kids and moms guess who was who. Most got Paige and Faith mixed up. The kids were amazed that our country began from such a small area. We typed up some things we learned from each colony/state. I drew the map on 2-large post-it notes and adhered it directly to my painting--it came off easily. We talked about quilting by hand--I'm thankful for my machine. My great-grandmother made this beautiful quilt by hand. The wall of corn was fun to make! We learned how the colonists grew beans up the stalks of corn (as well as squash) and that they used fish for fertilizer--Squanto taught them how to do this. My kids finger painted the corn. They wrote several uses for corn on the tags. Each mom brought a food item from early colonial times. I made hasty pudding and candied orange peels. Most pulled their recipes from online somewhere. I pulled my recipes from Colonial Kids Activity Guide. This guide was so helpful in planning this event! I had each family bring a set of cleaned out tuna cans. My husband cut pieces of wood approximately 18" long. Drill a tuna can to opposite sides and try to flip the bean bag from one to the other with a flick of your wrist. I attempted to demonstrate this and could not do it. Several 9-year-old boys were able to do it. I purchased the smaller sized bean bags (2") from Lakeshore Learning. This was the aftermath of the corn shucking contest. I had the kids all grab a piece of Indian corn and sit down. First one to completely shuck their corn stood up to win! Corn was an important commodity with the early settlers. I had each child bring a toy they were ready to pass on to a new home. The kids each received 10 kernels of corn in a muffin cup. We split them up into small groups and they had to go around their circle and say how much they would pay--in corn--for each toy. The toy went to the highest bidder. This group of boys really got into it and were quite animated through the entire process! An early American history party would not be complete without a Rainbow Loom bracelet to take home. I found these charms on Oriental Trading and had to order them! The Pilgrim, Indian and Mayflower charms were perfect for this event. I ordered the yellow and orange bands and the kids used their fingers to make bracelets. For the younger kids, they played "Pin the feather on the turkey." Just google your favorite free coloring picture of a turkey and have your child color it! For this game, the kids had to push a hula hoop with a stick down the street as far as they could. The early colonists used wheels for this game which had flat sides. It was pretty tricky with these all round hula hoops! For the stick, my husband put a paint stick and a small piece of scrap wood together to from a "T"--they pushed the hula hoop with this. "Stones Throw" is a game with circles drawn in the dirt and a stone--see how close to the center you can toss your stone. I didn't have a dirt patch around, so I drew it on our driveway and used a bean bag. A stone bounced around too much. A simple game of tug of war. This was the highlight of the games--the kids played this for a long time! They were all stripping off their costumes by the end because they were so sweaty--and grass stained! A successful event. Now I can take a nap. And attend to all of the other things in my house that I have neglected while getting ready for this party! It was worth all of the effort--my kids learned a TON and had so much fun doing it. THIS is why I love homeschooling!
Aptauja: 2016. gada lielākais pārsteigums un vilšanās
A list of 100 books every man should read. It centers not on sheer enjoyment (though you'll find that too), but on the books that expand mind and soul.
Italian artist Willy Verginer creates distinctly detailed wooden sculptures that are dipped into bright paints. Each piece is carved from a single piece
Ik ben alweer bijna drie weken terug van een heerlijke vakantie op Ibiza. En wat mis ik het eiland.. Dit jaar heb ik geen club gezien, maar zijn Mike en ik elke dag op zoek gegaan naar de mooiste stranden en de lekkerste restaurantjes. En óf we restaurantjes hebben gevonden! Het liefst wil ik in […]
Sekai, Japanese for 'world', is a series of clever sculptures by Maico Akiba, in which tiny little worlds emerge on the backs of wooden animals. The
Currently living and working in the idyllic town of Urtijëi, Italy, sculptor Willy Verginer shares a closeness with his environment in both technique and concept. His surreal wooden sculptures are carved from a single linden tree trunk with incredible precision and detail. Although their features are classical, Verginer paints bold stripes of color across his figures and poses them in awkward positions, making them completely contemporary. Previously covered here, he's often paired his figures of women, men, and young children with other animals and objects that don't fit together. His most recent pieces, which are on currently view at Galerie Van Campen & Rochtus in Belgium, pairs them with oil barrels.