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Rebecca Horn è una performer, scultrice e regista tedesca, che fin dall’inizio porta avanti la sua attività artistica attraverso un ricco ventaglio di forme espressive, che vanno dalla performance al film, dalle sculture e installazioni spaziali ai disegni e fotografie. La sua notorietà è dovuta soprattutto alla creazione di body extension, protesi corporee realizzate in vari materiali che inducono il corpo che le indossa a un nuovo rapporto con lo spazio. All’età di 19 anni, mentre frequenta l’Accademia di Belle Arti d’Amburgo, inala accidentalmente fibre di vetro e resine artificiali che le danneggiano seriamente i polmoni. Resta così per diciotto mesi ricoverata in un sanatorio e nello stesso periodo subisce la perdita di entrambi i genitori. Costretta a letto, il disegno e la progettazione di estensioni corporee divengono la sua strategia per uscire gradualmente fuori dall’isolamento in cui si trova e di ricollegarsi al mondo. Siamo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, periodo in cui le donne portano nell’arte dei contenuti nuovi, rivoluzionari, spesso usando il corpo come strumento di lotta sociale, per una rivoluzione della mentalità e dei costumi, della vita e del ruolo della donna nella società. Il lavoro di Rebecca Horn si inserisce in questo contesto. Nella sua arte il corpo diventa strumento privilegiato e materia prima plasmabile: l’artista progetta e realizza sculture indossabili come prolungamenti corporei, adattandole esattamente alle sue misure e a quelle dei suoi collaboratori. Il corpo protesico è il protagonista di performance che poi verranno documentate, fotografate e filmate. La sua arte riprende temi legati alla mitologia, come la metamorfosi in una creatura ibrida, all'alchimia e alle fantasie nate intorno alla costruzione dell’automa meccanico, temi che hanno caratterizzato correnti passate della storia dell’arte, come il manierismo o il surrealismo. All’inizio, le sue performance mettono in scena un teatro intimo in cui il corpo umano si fonde con quello dell'animale - reale o immaginario - o con la macchina. Rebecca Horn cerca di aumentare la sensibilità del corpo e la sua capacità di azione nell’ambiente. Per questo realizza estensioni che fungono da amplificatori sensoriali ed esplorano la relazione tra il corpo (organico e meccanico) e lo spazio. Tali protesi liberano e allo stesso tempo costringono il corpo di chi le indossa, lo estendono offrendogli nuove possibilità sensoriali e motorie e contemporaneamente lo vincolano e ne inibiscono altre. In una fotografia che documenta una delle sue performance più celebri, Einhorn (Unicorno), vediamo una donna nuda il cui corpo è fasciato da un corpetto formato da strisce di tessuto bianco, sormontato da un'alta struttura conica a forma di corno, sempre bianca, che si protende verticalmente dalla sommità della testa. La fasciatura ricorda un dipinto di Frida Kahlo, La colonna spezzata (1944), in cui la pittrice si ritrae cinta da un corsetto, molto simile a quello della Horn, che regge il suo corpo ferito. Le due artiste, d’altra parte, condividono una storia giovanile di sofferenza del corpo, che per entrambe diventa occasione di maturazione artistica. Che si tratti di Frida o di R. Horn, il corsetto conferisce sostegno e disciplina al corpo, solcandolo di linee orizzontali che creano tensione con la verticalità della sagoma allungata. L’effetto è contrastante: tale tensione mette in evidenza la sensualità erotica del corpo femminile e contemporaneamente lo irrigidisce. Nella performance della Horn il corpo della donna unicorno è un ibrido che deve muoversi nello spazio con la lunga estensione, costretta pertanto a cercare un nuovo baricentro e un nuovo equilibrio. Nella leggende medievali, l’unicorno è una figura enigmatica, tra il bene e il male. Il suo corno è in grado di curare le malattie, di provocare la fertilità e di purificare le acque avvelenate, ma il suo temperamento è feroce e selvaggio. E’ attratto unicamente dalle vergini e, quando trova una fanciulla pura, le si avvicina docilmente posandole il capo sul grembo. Ma se la giovane donna non è casta, allora viene violentemente trafitta dal suo corno. Rebecca Horn sembra giocare con questa tradizione mitica, mescolandone e decostruendone l'apparato allegorico, fondendo il corpo della donna con un elemento che è insieme simbolo fallico ed emblema di verginità. Se nella leggenda l'unicorno costituiva il rivelatore morale dell'illibatezza della fanciulla, ora quella fanciulla ha ucciso l'unicorno e si è appropriata del suo simbolo, privando il mito dell'originario potere censorio e rivendicando a sé soltanto il controllo sulla propria sessualità. Il personaggio della Horn è un essere ibrido, che va oltre le divisioni e i dualismi tradizionali. Si tratta infatti di un corpo che è allo stesso tempo organico e inorganico, umano e animale, naturale e artificiale, reale e fantastico. Avanza come una chimera in tutta la sua inquietante estraneità, con la lunga estensione appuntita che investe l’ambiente della sua morfologia fallica, quasi a voler trafiggere l’aria sopra di sé. Nel 1970 Rebecca Horn realizza il suo primo video, della durata di 12 minuti, basato sull'esibizione di Einhorn, in cui una modella cammina indossando il lungo corno attraverso un campo di spighe e strade di campagna. Hahnenmask, 1971. Altri lavori del periodo utilizzano delle estensioni protesiche che sembrano voler intensificare le facoltà sensoriali dell’artista. Nel 1971 realizza Hahnenmask , una maschera formata da un sottile cinturino di metallo coperto di piume nere di gallo e applicato sul profilo del suo viso: imponendo una visione separata ai due occhi, isolati su ciascun lato, l'artista incorpora una caratteristica degli uccelli. Catalizzatore di identità, il volto è un altro elemento centrale nelle opere di Rebecca Horn, che la porta a sviluppare un vivo interesse per la maschera. Affascinata dal potere di travestimento e di trasgressione di questo oggetto, cerca di sfruttarne le numerose ambiguità: tra il vivente e l'inanimato, l'essere umano e l'animale, il maschile e il femminile. Hahnenmask prefigura un'altra delle sue opere più famose: Bleistiftmaske, una maschera coperta di matite, dall'aspetto sadomaso, che gli consente di disegnare con la testa. Bleistiftmaske Nel 1972 realizza Fingerhandschuhe, una nuova performance in cui si serve di guanti con lunghissime dita di un metro ciascuna, realizzate in legno leggerissimo e ricoperte di tessuto nero. Le mani sono il principale organo esecutivo dell'uomo, mediante il quale sia il corpo che la mente svolgono un’interazione conoscitiva con la realtà circostante, contribuendo a formare e a sviluppare la nostra cognizione del mondo. Il guanto che indossa Rebecca, pertanto, non è solo un accessorio di vestizione ma costituisce un potenziamento fisico-mentale. Nell'esibizione le dita della performer controllano le dita delle protesi, che sono così leggere da poter essere mosse senza sforzo. Ancora una volta, l'artista estende il proprio corpo nello spazio, potenziandone la sensorialità e il tatto, e nello stesso tempo consentendole di mantenere una certa distanza dagli oggetti che tocca. Nel film del 1972, la Horn si muove lentamente in uno spazio dove c’è un uomo nudo, mentre cerca di esplorare entrambi con le lunghe dita nere. In una fotografia in cui indossa il medesimo strumento, invece dell’uomo c’è un foglio di carta spiegazzato, posato sul pavimento, che l’artista cerca di afferrare con le sue lunghe protesi manuali. Questa performance, come altre dell’artista, si concentra primariamente sul senso del tatto: sfiorando corpi od oggetti con le dita delle protesi si origina un’illusione tattile, anche se in realtà le dita delle mani non entrano in relazione diretta con l’oggetto. Ciò provoca una sensazione di dislocazione, di distanziamento della percezione dalla superficie del corpo. Fingerhandschuhe, 1972. Rebecca Horn chiama la serie di performance messe in scena e filmate tra il 1968 e il 1972 «Personal Art», in riferimento all’esperienza soggettiva che vive il performer che indossa le protesi, le quali stabiliscono una nuova relazione sensoriale e tattile (o meglio ancora aptica) con l’ambiente circostante ed evidenziano il potenziale mitico del corpo umano. Nel complesso, l’insieme di queste performance (Performances II) è una meditazione sul corpo (o sui corpi) in movimento nello spazio e sulla relazione tra i due. Nei pochi film in cui i protagonisti interagiscono, solo una persona indossa l’estensione, tramite la quale cerca una comunicazione (non verbale) o un contatto con gli altri, suggerendo il desiderio erotico, sfidando deliberatamente tabù sociali ed eludendo le nozioni tradizionali di genere, attingendo altresì a una ricca tradizione surrealista. Körperfächer In Performances II è inserita anche Körperfächer (White Body Fan), una performance che usa una struttura formata da due grandi semicerchi in tessuto, sostenuti da raggi in metallo e legno e legati alle gambe e al busto della performer, al cui corpo la struttura aderisce perfettamente, dando alla donna la possibilità di controllarne il movimento. Questa protesi, come altre progettate dalla Horn, è in grado di espandere e contemporaneamente di racchiudere il corpo della performer: quest'ultima può aprire le membrane in senso laterale, formando un cerchio, oppure portarle in avanti, avvolgendo il corpo in una protezione che la occulta alla vista. I movimenti plananti, al contempo coreografici e scultorei, rimangono comunque ancorati alla sua posizione eretta, suggerendo uno spazio sferico chiuso piuttosto che la possibilità di volare. Berlin-Exercises in Nine Parts (1974–75), a cui l'artista si riferisce come il suo "primo" film, presenta delle performance realizzate nel suo studio berlinese, che rivisitano i temi esplorati in Performances II. In Gleichzeitig die Wände berühren (Scratching Both Walls at Once, 1974-75) le dimensioni delle dita dei guanti in tessuto e legno di balsa, già usati in Fingerhandschuhe, si estendono ulteriormente, in modo da toccare entrambe le pareti della stanza. Nonostante queste protesi siano molto ingombranti, esse permettono una nuova e ancora più ampia esperienza sensoriale. Nel video vediamo l’artista che cammina lentamente al centro della stanza, mentre con le punte delle lunghissime dita graffia le pareti laterali, producendo un crepitio persistente. In Cutting One’s Hair with Two Scissors Simultaneously, invece, la vediamo mentre con due forbici taglia spietatamente la sua chioma di capelli rossi, mentre un uomo recita un testo sui rituali di accoppiamento (simile a una danza di combattimento) tra due serpenti. Solo pochi anni dopo realizza il suo primo lungometraggio Der Eintänzer (The Dancer, 1978), in cui esiste una sceneggiatura che collega insieme le varie performance, tramite le quali Rebecca Horn affronta una vasta gamma di percezioni sensoriali (tatto, vista, udito, olfatto, gusto). Realizzato nel suo studio di New York, ne prendono parte amici e collaboratori, i quali interagiscono sulla scena con altri personaggi umani e con alcuni oggetti: un piccolo pianoforte giocattolo, un pesce morto. Gli oggetti simbolici nello studio, come un uovo di struzzo e delle piume, sono anch’essi incorporati direttamente nella trama di Eintänzer . In una voce fuori campo, Horn li descrive come "oggetti che hanno già iniziato a esercitare i loro nuovi ruoli e possibilità". Nel corso del film, una di queste possibilità è che un oggetto possa avere una vita propria. Compare infatti una delle macchine cinetiche realizzate dalla Horn, Die sanfte Gefangene (The Feathered Prison Fan), che consiste in due ruote parallele di piume di struzzo che si aprono e si contraggono meccanicamente, occultando e rivelando un corpo al suo interno. Die sanfte Gefangene (The Feathered Prison Fan) Attraverso le sculture per il corpo Horn ha portato avanti un’indagine sistematica sulla soggettività individuale, sulla propriocezione e sul rapporto del sé con gli altri, gli oggetti e lo spazio circostante. Le sue estensioni corporee puntano l'attenzione sul bisogno dell’uomo di interagire e di controllare tutto ciò che lo circonda e sulla violenza latente in tale ricerca. Mentre queste opere sembrano strumenti per migliorare le capacità umane, gli effetti che ne risultano sono spesso goffi e debilitanti, mostrando i limiti del corpo di chi li indossa. Negli anni ’80 l'attività di Rebecca Horn sarà volta soprattutto alla creazione di installazioni e sculture cinetiche, che via via si emanciperanno dal corpo umano e prenderanno vita propria, attraverso la meccanizzazione del movimento.
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