Beatos čenakai su raugintais kopūstais ir mėsa - ☑️ patiekalas, kurį nesunkiai pasigaminsite pagal šį receptą.🍽️ Išbandyk šį receptą jau dabar!
Se conoce como Los Beatos a los manuscritos de los siglos X y XI, más o menos abundantemente ilustrados, donde se copian el Apocalipsis de San Juan y los Comentarios sobre este texto redactados en el siglo VIII por el Beato de Liébana. Escribió los Comentarios al Apocalipsis de San Juan (Commentarium in Apocalypsin), en el año 776. Diez años después, en el 786, redacta la versión definitiva. En esta versión pretende hacer frente a la crisis por la que pasaba la Iglesia en aquellos años e intenta demostrar que está en posesión de la traditio sobre la llegada y predicación del Apóstol Santiago en España. Para ello se basa en ciertos escritos del libro Breviario de los Apóstoles. El Apocalipsis de Juan es el último libro del corpus bíblico cristiano. La clase literaria apocalíptica (del griego apocalupteïn, revelar) florece en el período intertestamentario (entre el II siglo antes de J.-C. y el I siglo antes de J.-C.) encuentra sus raíces, no en el Nuevo Testamento, sino en los últimos libros del Antiguo, en particular, algunas partes del Libro de Daniel (escrito hacia 167 antes del J.C.): el Apocalipsis tiene entonces más relaciones conceptuales y de contexto con la cultura semítica del Antiguo Testamento que con el mundo de los Evangelios. El Apocalipsis de Juan se redactó en el último tercio del siglo I, durante las persecuciones de Néron, después de la de Domiciano contra los cristianos que se negaban a rendir culto el Emperador. Un apocalipsis es un "descubrimiento" del futuro, revelado a un alma y transcrita bajo una forma poética más o menos críptica. Es un discurso escatológico. Se calificaron los Apocalipsis de "Evangelios de la Esperanza", ya que anuncian a poblaciones martirizadas que el mal histórico consigue una felicidad eterna. El texto parece generalmente oscuro a los que no están iniciados en la cultura bíblica: destinado a los creyentes y a ellos sólo, hace referencia a la Historia Santa y a libros proféticos del Antiguo Testamento. Es pues una concepción de la Historia destinada a mostrar a los que sufren cómo el Bien Supremo se encontrará al término de una marcha históricamente necesaria a través del Mal. Los colores de las pinturas son el rojo (más o menos oscuro), el ocre, el verde oscuro, el rosa-malva, el azul oscuro, púrpura, anaranjado, y sobre todo el amarillo huevo muy luminoso, muy intenso, consustancial a la pintura mozárabe. Se emplea el negro también. El azul claro y el gris son raros. Los colores "calientes" son los predominantes: rojo, anaranjado, amarillo.Los colores son puros, sin medias tintas, sin mezclas, sin transiciones de uno a otro los pintores de los Beatos no buscan una adecuación con el mundo de la percepción. La realidad que dan a conocer es de carácter espiritual.Los artistas de los siglos X y XI, solucionaron el problema desrealizando las escenas, renunciando a todo elemento de decorado inútil con el fin de no sumergir la mirada del lector en todo lo que descartaría el espíritu de la parte fundamental. Las miniaturas entonces son liberadas, purificadas de todo lo que puede darse por anecdótico. Para saber más sobre los Beatos o para verlos a mayor tamaño, y en variedad de imágenes enlaza con Wikipedia
Tra i primi fotogiornalisti della storia, Felice Beato (1833-1909) ha immortalato gli ultimi samurai giapponesi: con i suoi scatti, realizzati tra il 1863 e il…
Un chaval de diecisiete años compró una cámara fotográfica en París. Era un día cualquiera de 1851. Aquel chico inglés, que pronto sería un hombre de aspecto victoriano y barba prominente, se convertiría en uno de los primeros fotógrafos de guerra poco antes de irse a vivir a Japón. Hablar del orige
Il Rinascimento non è stato solamente il trionfo dell’umano, del mondano, ma al suo interno, e non certo in una posizione defilata, ha continuato a svilupparsi una tensione mistica che ha trovato altissima espressione. Certo non ci si trova più di fronte a una visione fortemente teocentrica, come nel Medio Evo, ma a una quasi…
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Pietro Pignatelli nacque a Montemagno, tra Pisa e Lucca. Secondo B.T.A. il suo cognome era Paganelli, e si affermava che era di famiglia...
Il Rinascimento non è stato solamente il trionfo dell’umano, del mondano, ma al suo interno, e non certo in una posizione defilata, ha continuato a svilupparsi una tensione mistica che ha trovato altissima espressione. Certo non ci si trova più di fronte a una visione fortemente teocentrica, come nel Medio Evo, ma a una quasi…
Felice Beato fu un fotografo e avventuriero che viaggiò in lungo e in largo per il mondo durante oltre mezzo secolo, fra il 1851 e il 1907, e che documentò alcuni dei più importanti eventi bellici legati all'espansione coloniale britannica dell'epoca Vittoriana. Il suo lavoro costituisce un documento storico preziosissimo, perché fotografò per la prima volta molti paesi orientali e fu probabilmente fra i primi (se non il primo) inviato di guerra in assoluto. Sue sono le prime fotografie di cadaveri, sue le prime ricostruzioni narrative di guerra realizzate mediante fotografie documentarie, sue le splendide fotografie colorate a mano del Giappone della fine del periodo Edo. Nato a Venezia o Corfù nel 1832 o nel '34, a quell'epoca non per tutti le date e i luoghi di nascita erano certi, Beato fece della fotografia un'impresa, accumulando notevoli fortune che poi perse in avventure imprenditoriali spregiudicate. Le sue immagini contribuirono a creare in Occidente una cultura dell'Oriente, ammirate da numerosissimi artisti, da Van Gogh ai parigini della Belle Époque, fra i motori dell'influenza nella pittura europea nota come "Giapponismo". Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine: Il suo lavoro in Giappone durò circa una ventina d'anni, fra il 1863 e il 1877, un periodo importantissimo per il paese perché attraversato dal rinnovamento Meiji, fase politica che, nel 1869, riconsegnò il potere all'imperatore sottraendolo agli Shōgun Tokugawa. In questo contesto Felice Beato aprì uno studio, in società con Charles Wirgman, con una società di nome "Beato & Wirgman, Artists and Photographers", che coniugò la capacità documentaria fotografica dell'italo-britannico con quella artistica di Wirgman. Il lavoro del fotografo, fra i pochissimi occidentali a risiedere in Giappone sotto il dominio degli shōgun, venne realizzato su carta all'albumina colorata a mano da artisti dell'acquerello locali, costituendo un lavoro documentario tanto importante da aver preso il nome di "Scuola di Yokohama", raccontata nel volume "Japanese Dream" edito da Alinari. La serie di fotografie furono originariamente raccolte nella pubblicazione di due volumi "Native Types" e "Views of Japan", riuniti poi nel più ampio "Photographic Views of Japan with Historical and Descriptive Notes". Le immagini furono realizzate fra il 1866 e il 1868, scattate a seguito di un incendio che distrusse buona parte del precedente lavoro del fotografo italo-britannico. "Native Types" include 100 ritratti di persone delle diverse classi sociali giapponesi, fra alcune famosissime fotografie di Samurai, mentre "Views of Japan" era composta da 98 fotografie di paesaggi e architetture del paese. In seguito al lavoro svolto, non più in società con Wirman, Beato aprì uno studio in proprio a Yokohama, "F. Beato & Co., Photographers", dov'era impegnato insieme ad altre otto persone, quattro fotografi e quattro artisti dedicati alla colorazione delle immagini. Impegnato non solo come fotografo ma anche come imprenditore immobiliare, Felice Beato divenne addirittura il console per la Grecia nel paese Nipponico, grazie alla dubbia località della sua nascita e al periodo dell'infanzia passato certamente nell'isola di Corfù, tornata nei territori della Grecia nel 1864. Il lavoro come fotografo di Beato in Giappone terminò nel 1877, quando il suo studio venne venduto a Stillfried & Andersen, che lo cederanno poi al già celebre fotografo italiano Adolfo Fasari, fra i maggiori divulgatori dell'arte fotografica nel Giappone di fine '800. Nonostante non fosse più impegnato come fotografo, Felice Beato lasciò il Giappone solo 7 anni dopo la vendita del suo studio, nel 1884, quando si trasferì in Egitto e aprì nuovamente, ça va sans dire, uno studio fotografico. In seguito continuò a seguire spedizioni militari britanniche che lo portarono prima nel vicino Sudan e poi in Birmania, dove finì per stabilirsi con un nuovo studio fotografico sino al 1907. Dopo un'intera vita passata a fotografare in giro per il mondo, nel 1907 si trasferì a Firenze, dove morì nel 1909. La sua tomba si trova al cimitero delle Porte Sante a Firenze, scoperta soltanto nel 2014 grazie a due ricercatrici italiane, Rossella Menegazzo e Sara Ragazzini, e l'impegno di alcuni ragazzi del Japan Camera Industry Institute (JCII) di Tokyo. La vita di questo fotografo, che fu un imprenditore, un avventuriero e persino un dignitario di stato, fa parte di quella schiera di personaggi ottocenteschi che sono circondati da un'aura di leggenda, ormai dimenticati fra le pieghe del tempo, ma le cui avventure non possono che portarci a fantasticare di un mondo più piccolo e molto meno connesso di quello odierno, ma che aveva da offrire esperienze eccezionali a coloro che avevano il coraggio di esplorarlo...
It’s hard for me to imagine, in the age of instant information, what it would be like to see one of Felice Beato’s photographs in 1850s and 60s. The images he captured in the Mediterranean, Japan, China (where he was the first photographer, ever), India, Burma and the Crimea would have been the first glimpse […]
Woman at toilette, photographer Baron Raimund von Stillfried, 1860 Prisoner, 1860 photographer Baron Raimund von Stillfried Two tattooed men, photographer Baron Raimund von Stillfried Pilgrim going up Fujiyama, photographer Kimbei Kusakabe Samurai in armour, photographer Felice Beato Samurai…
http://www.warfare.altervista.org/12/Beatus-Silos.htm The manuscript was copied in 1090 and the illuminations completed in 1109 in the Spanish monastery of Santo Domingo de Silos, near Burgos. Commentary on the Apocalypse by Beatus of Liébana, Spain, 1090-1109AD British Library Add. MS 11695.
En unos minutos se sirvió un debate en la red social, en el que todo el mundo andaba interesado. Intentábamos comprender, unos, y otros, explicar, lo que significaba esta escena, una pequeña y singular instantánea de dos personajes que remataba una de las hojas de pergamino del Códice de Silos, una copia del Beato de Liébana, bastante tardía, realizada en el scriptorium del monasterio silense. Desde entonces hasta ahora la he estudiado, he leído sobre ella todo lo que ha caído en mis manos y la he reproducido sobre teja y tabla en diferentes ocasiones. Lo último ha sido buscar paralelos actuales de la danza y la música. ¡No deja de sorprenderme! El Códice de Silos es una copia extrañamente tardía del Beato de Liébana. Resulta bastante sorprendente que en el cenobio altomedieval de San Sebastián, fundado a finales del siglo IX o comienzos del X, no se hubiera copiado ya el famoso beato de Liébana, pero lo cierto es que no fue hasta el renacimiento del scriptorium en el siglo XI, con el abad Domingo y su apogeo con Don Fortunio, cuando los monjes silenses se embarcan en la tarea de realizar su propia copia. Fueron los monjes Domingo y Muño quienes en la hora sexta del 18 de abril de 1091, que cayó en jueves, dieron por acabada la copia del texto indicando "Bendito sea el Señor que me condujo al puerto de esta obra. Bendigo también al rey del Cielo que me ha hecho llegar sin daño al final de este libro, amén". Continúan: "Este duro trabajo de copista aprovecha el lector. El escriba cansa su cuerpo y éste nutre su mente". E incluso interpelan al lector: "Tú, seas quien seas, que te aprovechas de este libro, no te olvides de los escribas, para que el Señor se olvide de tus pecados. Porque quien no sabe escribir no valora este trabajo. Por si quieres saberlo, te lo voy a decir puntualmente: el trabajo de la escritura hace perder la vista, dobla la espalda, rompe las costillas y molesta al vientre, da dolor de riñones y causa fastidio a todo el cuerpo. Por eso tú, lector, vuelve las hojas con cuidado y aleja tus dedos de las letras, porque igual que el pedrisco destroza una cosecha, así el lector inútil borra el texto y destruye el libro". La obra, una vez finalizada la escritura, pasó a los iluminadores, desconocidos para nosotros, suponiendo la muerte del abad Fortunio, acontecida, hacia el año 1100, un parón en la elaboración de las miniaturas, de modo que el libro fue totalmente acabado 18 años después, el 30 de junio de 1109, siendo abad D. Pedro. Una de sus mas singulares escenas iluminadas se identifica con un par de juglares, un músico y un danzante, dispuestos al final de la hoja de pergamino, sin marco alguno, rematando la Storia Quattuor animalia del Liber 3, justo después de Cristo entronizado, el cordero rodeado de las cuatro criaturas, los ancianos y la visión de la corte celestial. Fue Meyer Schapiro quien primero llamó la atención sobre esta ilustración. No es una inicial, ni sirve de comentario al texto y parece tratarse de un elemento absolutamente profano creado como una recreación lúdica de la vida cotidiana, llena de movimiento, como un capricho de relleno de este espacio. No obstante es mas que posible que tuviera un significado relacionado siquiera simbólicamente con lo precedente. Los personajes se colocaron afrontados y se representan con túnicas cortas y un curioso calzado elevado. La forma triangular de las plataformas nos induce a varias interpretaciones que oscilan entre unos incómodos y extravagantes chapines de altas plataformas, los coturnos para caminar preservándose de los barros o un curioso modo de representación del movimiento o los pasos de danza. El de la izquierda tañe un instrumento, una viola oval, mal llamada Fídula (pues no existe ninguna base histórica para denominarlas así); un instrumento de cuerda frotada, y parece danzar mientras lo toca. El de la derecha, también danzante, sujeta por el cuello un ave zancuda, con una de sus manos, mientras que en la otra blande un espadón o faca. Ha querido verse una cierta relación entre esta representación y aquella descripción de a algunos juglares que esgrimían cuchillos y espadas y que fue recogida por D. Ramón Menéndez Pidal y compartida por J. Williams, y con la supuesta habilidad juglaresca para imitar el canto de los pájaros. Ninguna de las dos hipótesis parece poder mantenerse. María del Rosario Álvarez contradice a Meyer Schapiro y propone la vinculación de la escena con el texto precedente, indicando que ambos danzantes -que se hallan tras el cordero y los cuatro seres vivientes-, poseen un significado ligado al pecado. Se basa para ello en sus desafiantes rostros, alejados de las beatíficas caras de otros personajes, así como en la introducción de novedades en el ámbito musical, en este caso la viola oval, que sería una transformación de un instrumento sagrado. El ave , propone, representaría el pavón de la Resurrección y todo el conjunto estaría encaminado a condenar a todos los que realizan acciones pecaminosas y reprobables, incluyendo la música y la danza, contra Cristo y su iglesia. Yo no sabría qué decir al respecto. Tiendo a creer, como la navaja de Ockham, que el camino mas sencillo es la mejor explicación, pero es cierto que sobre la simbología antigua litúrgica carezco de suficiente conocimiento como para desechar nada. Me fío de los investigadores de primera que me agasajan con su amistad virtual y real. Así lo pinté Que tengan una feliz semana! Para viola Música en los Beatos Más música en los Beatos
September 2023 Felice Beato (Italian-British, 1832-1909) Shiba Temple, Japan c. 1870 Albumen silver print from wet collodion glass-plate negative After the latest burst …
Seguimos con los Beatos El motivo por el cual se les denomina beatos, es porque el autor del primer comentario al Apocalipsis, fue un monje que se llamaba Beato y vivió en el valle de Liébana, en Cantabria, en el Monasterio de San Martín (actualmente Santo Toribio) entorno al año 800. Monasterio de Santo Toribio El comentario al Apocalipsis del Beato, conoció un desarrollo extraordinario en tierras de Castilla y León en el transcurso del siglo X, fomentado tal vez por los terrores que sintió la cristiandad ante la proximidad del fin del mundo en el año 1000 y que tan bien representaban imágenes y texto de los beatos. Los mejores códices, en efecto, y sus artífices –Magio, Emeterio, Senir, Oveco, etc.- son de Zamora, León y Palencia. Debemos destacar, en particular, el llamado Morgan, hoy en Nueva York, y el de Valcavado, en Valladolid, y no porque figuren entre la media docena de los mejores beatos, sino porque son de la misma familia que el ejemplar de la Seu d’Urgell. La semejanza del Urgellensis con el de Valcavado son tantas que podría aventurarse que ambos fueron elaborados en el mismo scriptorium. BEATO DE LA SEU D'URGELL o URGELLENSIS En azul Beato anterior, entrada del 18 de julio Por un inventario de la Biblioteca de la Seu d’ Urgell, sabemos que en 1147 el Beato ya estaba en tierras pirenaicas. Es bien conocida, la fortísima vinculación de los Condes de Urgell con el rey Alfonso VI y sus descendientes. Armengol V (1092-1102) casó con María, hija del conde Pedro Ansúrez, el fundador de Valladolid. Este conde castellano gobernó el condado de Urgel a principios del siglo XII durante la minoría de edad de su nieto Armengol VI. Es bastante probable que el conde Armengol V o Pedro Ansúrez donasen el libro al obispo San Odón, patrón de la ciudad, e iniciador de la construcción de la actual catedral. El códice está compuesto en la actualidad por 239 folios, siete folios numerados en romano y 232 en árabe, y miden 398 x 270 mm. La escritura que emplea es la llamada visigótica redonda, y se reparte en dos columnas. Aunque el libro carece de colofón y, por tanto, no sabemos el año exacto en que se escribió, debemos situarlo poco después de 970, fecha de confección del de Valcavado, cronología que avalan también escritura y miniatura. El Beato de la Seu d’Urgell, fue robado del Museo Diocesano de la Seu d'Urgell el 29 de noviembre de 1996 por dos encapuchados que, tras reducir a una empleada con un aerosol, rompieron la vitrina de seguridad que protegía al ejemplar y se lo llevaron. ( fue recuperado ) Detalle fig. superior Detalle fig. superior Me encanta la falta de prejuicios, reglas y complejos pictóricos de esa época, y para acompañarnos mientras disfrutamos de esa espontaneidad que mejor que este canto mozárabe, visigótico o ambrosiano.
En el campo de concentración de Auschwitz, cerca de Cracovia, en Polonia, beato Sinforiano Ducki, religioso de la Orden de los Hermanos Menores Capuchinos y mártir, que apresado en tiempo de guerra por su fidelidad a Cristo, culminó su martirio en medio de torturas. Félix nació en Varsovia, Polonia. Frecuentó la escuela elemental en la nativa Varsovia. Cuando en 1918 los capuchinos regresaron a su convento propio, abandonado con la supresión zarista de 1864, Félix Ducki, que de tiempo atrás sentía la vocación, se unió a ellos, primero ayudando simplemente a la reorganización del convento y más tarde como postulante. El 19 de mayo de 1920 comenzó el noviciado en Nowe Miasto con el nombre de fray Sinforiano. Terminado el año de noviciado se dedicó al servicio fraterno en los conventos de Varsovia, de Lomza y de nuevo en Varsovia (desde el 27 de mayo de 1924), hasta la profesión solemne, el 22 de mayo de 1925. En Varsovia desempeñó primero el oficio de hermano limosnero, preocupándose sobre todo de recoger ofertas para la construcción del Seminario Menor de San Fidel. Después fue nombrado hermano socio del padre Provincial. De carácter sociable, simple, cortés y amigable, fácilmente conquistaba la simpatía del pueblo y nuevos amigos para la Orden. No obstante su vida tan activa en medio de la gente, no perdió nunca el espíritu interior, distinguiéndose por su oración devota y fervorosa. Era conocido y estimado por los habitantes de la capital y le llamaban "padre" aunque no era sacerdote. Al sobrevenir la II Guerra mundial se esforzó para que no faltara lo necesario ni a sus hermanos frailes ni a los demás pobres, hasta el 27 de junio de 1941, día en que la Gestapo arrestó a todos los 22 capuchinos del convento de la capital. En un primer momento fray Sinforiano fue internado en la prisión di Pawiak, y luego, el 3 de septiembre, en el campo de concentración de Auschwitz. De constitución robusta, sufrió más que los demás el hambre y las persecuciones, soportando todo en silencio. Las míseras raciones que recibían no cubrían ni siquiera la cuarta parte de la necesidad del organismo de un hombre normal. Después de siete meses fue condenado a una muerte lenta. Una tarde, mientras los custodios del campo habían comenzado a asesinar prisioneros de un modo bestial, destrozándoles la cabeza a garrotazos, fray Sinforiano tuvo la valentía de hacer sobre los caídos la señal de la cruz. El testigo ocular y compañero de prisión César Ostankowicz declara que hubo un momento de aturdimiento y sorpresa, al que siguió la orden de apalear a Sinforiano. Un golpe en la cabeza le hizo caer al suelo entre los esbirros y los prisioneros. Poco después tuvo fuerzas para levantarse y hacer de nuevo la señal de la cruz. Fue entonces cuando lo asesinaron. La muerte de fray Sinforiano puso fin a la tremenda matanza que los soldados estaban perpetrando, y unos quince prisioneros se salvaron así de la muerte. Estos, con grande veneración, cargaron a fray Sinforiano en el carro que le llevaría, con los demás cadáveres, al horno crematorio. Con su martirio fray Sinforiano demostró heroicamente su fe en la Trinidad, y salvó de una muerte segura a un grupo de compañeros de prisión. Fue beatificado el 13 de junio de 1999 por Juan Pablo II.
Isidoro Bakanja nació el año 1885, en el entonces Congo Belga. De adolescente se hizo cristiano y fue el primer católico de su región. Fue devoto del rosario y del escapulario de la Virgen del Carmen. Hizo apostolado con la oración, con el testimonio de su vida cristiana y enseñando el catecismo a muchos compañeros del trabajo. El gerente de su empresa lo humillaba y golpeaba por su condición de cristiano. En cierta ocasión le exigió que se quitara el escapulario. Al no hacerlo, le golpeó con inaudita crueldad. Murió seis meses después, como consecuencia de las heridas recibidas y de otros golpes y humillaciones que le propinó durante su convalecencia. Antes de morir, perdonó a su verdugo y oró por su conversión. Falleció el 15 de agosto de 1909. Fue beatificado en 1994. Oración colecta. Dios omnipotente y eterno, que llamaste a la luz del Evangelio al beato Isidoro y lo hiciste mártir de Cristo, concédenos, por sus méritos e intercesión, amar a todos y orar por los que nos persiguen. Por nuestro Señor Jesucristo, tu Hijo, que vive y reina contigo en la unidad del Espíritu Santo, y es Dios por los siglos de los siglos. Amén. Oración sobre las ofrendas. Dios de misericordia, derrama tu bendición sobre estos dones y guárdanos en la fe que tu mártir, el beato Isidoro Bakanja confesó con su sangre. Por Jesucristo, nuestro Señor. Amén. Oración después de la comunión. Señor, que el sacramento que hemos recibido nos dé la fortaleza con que el beato Isidoro Bakanja se mostró siempre fiel a tu servicio y vencedor en el tormento. Por Jesucristo, nuestro Señor. Amén.